Nel bilancio dell’INPS un altro fondo comincia a scricchiolare viaggiando spedito verso il disavanzo. Si tratta del fondo costituito nel 2007 presso la Tesoreria dello Stato e gestito dall’INPS in cui affluisce il Tfr dei dipendenti impiegati in aziende con più di 50 addetti che hanno deciso di non aderire ad alcuna forma di previdenza complementare.
A dicembre 2018 erano poco più di 3,3 milioni i lavoratori il cui TFR veniva destinato a questo fondo: 1,8 milioni uomini e poco più di 1,5 milioni donne; età media 44 anni, per un contributo medio di 230 euro al mese.
L’accantonamento annuo reale del TFR per il dipendente è pari al 6,91% della retribuzione annua lorda e, alla fine di ogni anno, ogni anno, queste risorse sono rivalutate con un tasso composto dell’1,5% fisso più il 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Come ci ricordano puntualmente le statistiche Covip, questa rivalutazione è sempre stata inferiore ai rendimenti garantiti dai fondi pensione negoziali, aperti o Pip, sia in media d’anno sia in termini cumulati.
Dal 2007, il TFR destinato al Fondo Tesoreria ha raggiunto la ragguardevole cifra di oltre 68 miliardi di euro. Risorse che, inizialmente, sarebbero dovute servire per finanziare le grandi opere e le infrastrutture, una destinazione che, anche a causa della crisi economica sopravvenuta, non è mai avvenuta.
Il TFR è stato, di volta in volta, utilizzate per tamponare diverse esigenze di finanza pubblica. Ogni volta che un lavoratore iscritto è andato in pensione o ha cambiato azienda o ha perso il posto, il suo Tfr è stato liquidato dal datore di lavoro che poi conguagliava l’importo con i contributi dovuti all’INPS. Finora la differenza tra entrate (TFR) e minori contributi ricevuti ha chiuso in positivo. Finora, perché l’avanzo, superiore ai 5 miliardi nel 2007, è sceso sotto il miliardo e mezzo nel 2018, dimezzandosi negli ultimi cinque anni. Se la dinamica non cambierà tra qualche anno il Fondo sarà in rosso.
Come per tutte le gestioni Inps caratterizzate da uno squilibrio tra contributi versati e prestazioni erogate, quando si arriverà allo squilibrio la differenza ce la metterà lo Stato con nuovi trasferimenti, restituendo con il passare degli anni il capitale che si era cumulato nella fase di maturazione del Fondo.
Che cosa si può imparare da questa storia? Primo, che il Tfr di questi lavoratori di medio-grandi aziende non ha garantito liquidità alle medesime ma allo Stato, in cambio di una rivalutazione del capitale al di sotto delle medie di mercato. Secondo, che una gestione a ripartizione ha tempi non necessariamente lunghi di maturazione e se il mercato del lavoro si restringe il capolinea può arrivare prima del previsto. E chi paga, come detto, è lo Stato, tramite le tasse versate dalle generazioni correnti.
Scegliendo di destinare i propri risparmi, compreso il TFR, costituiranno la propria posizione e non potranno essere toccati da nessun’altro che dall’aderente stesso.
Oltretutto, l’aderente potrà scegliere liberamente la linea di gestione più adatta al proprio profilo e orizzonte temporale e godere di una tassazione agevolata in fase di erogazione, così da dare ancora più valore al proprio TFR maturando.