In Italia si parla da molti anni di abbassare il costo del lavoro per incentivare le aziende ad assumere nuova manodopera. Tuttavia, al di là delle intenzioni e fatta eccezione per i bonus e gli sgravi previsti per assumere specifiche categorie di dipendenti, il costo del lavoro continua ad essere molto alto. Occorre comunque considerare che assumere un dipendente con un contratto di lavoro piuttosto che con un altro non è indifferente sotto il profilo del costo.
Il contratto a tempo determinato: costa di più?
La risposta è sì e, anzi, con le recenti riforme del Decreto Dignità il costo del lavoro a tempo determinato, soprattutto quando ad uno stesso dipendente viene rinnovato più volte il contratto, rischia di lievitare parecchio rispetto al costo del lavoro a tempo indeterminato.
Come si determina il costo del lavoro?
Quando si parla di costo del lavoro si fa riferimento a quanto costa all’azienda assumere un dipendente durante tutta la durata del rapporto di lavoro e al momento della sua cessazione.
Il concetto di costo del lavoro non ha nulla a che vedere, dunque, con il concetto di retribuzione o di stipendio. Queste ultime voci, infatti, costituiscono solo una parte dei costi complessivi che l’azienda deve sostenere con riferimento a ciascun dipendente.
Il costo del lavoro in Italia è notoriamente alto nonostante vi sia la convinzione comune che gli stipendi dei lavoratori italiani siano tra i più bassi d’Europa. Come mai? Perché c’è tutta questa differenza tra i soldi netti presi dal dipendente e i costi sostenuti per quel dipendente dall’azienda?
Per capirlo cerchiamo di analizzare come si compone il costo del lavoro.
In primo luogo occorre partire dalla retribuzione lorda complessiva che viene corrisposta al dipendente in un dato periodo. La quantificazione della retribuzione prende a riferimento, solitamente, la paga oraria, quella mensile o quella annuale.
Per stabilire l’ammontare della retribuzione lorda occorre fare riferimento al contratto individuale di lavoro. Nel contratto, infatti, datore di lavoro e dipendente hanno stabilito quale sarà la retribuzione lorda del dipendente.
Nel decidere la retribuzione le parti hanno due possibilità: possono rimettersi a quanto stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) di riferimento e dunque garantire al dipendente il minimo stipendiale previsto per il suo inquadramento nel Ccnl.
Oppure possono pattuire una retribuzione lorda superiore al minimo del Ccnl ed in questo caso la quota di stipendio che supera i minimi tabellari viene detta superminimo individuale.
Alla retribuzione lorda occorre aggiungere le altre voci stipendiali previste dalla contrattazione collettiva come, ad esempio, gli scatti di anzianità ossia un’ulteriore somma di denaro che ha diritto a ricevere il dipendente che raggiunge determinati requisiti di anzianità di servizio presso la medesima azienda.
Inoltre, occorre considerare le cosiddette mensilità aggiuntive, vale a dire la tredicesima e/o la quattordicesima, in base a ciò che prevede il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Su questo importo, che corrisponde alla retribuzione complessiva lorda, devono essere calcolati i contributi previdenziali che devono essere versati all’Istituto nazionale previdenza sociale (Inps) sulla base delle aliquote contributive del settore assegnate all’azienda e che variano, oltre che in base al settore, anche in base alla qualifica del dipendente (impiegato, operaio, quadro, dirigente). In generale, la quota di contributi previdenziali Inps a carico dell’azienda è pari a circa il 30% della retribuzione lorda complessiva.
Se, ad esempio, un dipendente ha una retribuzione lorda complessiva di 25.000 euro annui, i contributi previdenziali a carico dell’azienda saranno pari a circa euro 7.500.
Inoltre, sulla stessa base imponibile data dalla retribuzione complessiva lorda, sarà necessario calcolare anche i premi assicurativi da versare all’Istituto nazionale di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) secondo quanto stabilito annualmente dall’istituto sulle basi di calcolo. Il tasso medio Inail da applicare sulla retribuzione complessiva lorda è pari, circa, all’11 per mille.
A questi costi vanno aggiunti eventuali contributi a carico dell’azienda per ogni dipendente da erogare a enti bilaterali, sanità integrativa, fondi di previdenza complementare, etc.
Come noto, inoltre, in Italia le aziende devono accantonare ogni anno una quota, da calcolare sulla retribuzione lorda complessiva, a titolo di trattamento di fine rapporto (Tfr). L’intero Tfr accumulato negli anni verrà versato al dipendente in caso di cessazione, per qualsiasi ragione, del rapporto di lavoro.
Il Tfr si ottiene dividendo la retribuzione lorda annuale per 13,5. Inoltre, ogni anno, la quota di Tfr maturata e non destinata a fondi di previdenza deve essere rivalutata sulla base di coefficienti Istat che vengono resi noti annualmente.
i costi indiretti
Quelli che abbiamo analizzato sono i costi diretti che ogni azienda deve sostenere per tenere in piedi un rapporto di lavoro. A questi costi si devono però aggiungere anche altri costi eventuali o indiretti come, ad esempio:
- costi legati agli adempimenti richiesti dalla normativa relativa alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;
- corsi di formazione per i dipendenti;
- spese relative alla redazione delle buste paga e agli altri adempimenti amministrativi legati alla gestione del personale;
- spese legate a possibili contenziosi con i dipendenti;
- costi della gestione del Libro Unico del Lavoro e di tutti gli adempimenti previsti dalla disciplina inerenti l’amministrazione del personale.
il costo del lavoro è uguale per tutti i contratti?
Da quanto abbiamo appena descritto è facile comprendere perché vi sia così tanta distanza tra il reddito netto percepito dal dipendente e il costo complessivo sostenuto dall’azienda con riferimento a quello stesso dipendente. Questa differenza viene detta cuneo fiscale.
E’ dunque evidente che il datore di lavoro, prima di procedere all’assunzione del dipendente, si chieda quale tipologia di contratto utilizzare per minimizzare il costo della risorsa.
Occorre chiarire che nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato (e dunque tenendo da una parte tutti i rapporti di lavoro autonomo o parasubordinato che hanno un costo ed una tassazione completamente diversi) esiste una differenza tra contratti di lavoro a tempo indeterminato e altre tipologie di contratti.
Il motivo è semplice: il contratto di lavoro a tempo indeterminato è considerato dalla legge la forma comune di assunzione dei dipendenti e quella che garantisce alla persona del lavoratore un percorso di stabilità e di certezza. Per questo la legge utilizza lo strumento del costo del lavoro per incoraggiare le imprese ad assumere utilizzando il contratto di lavoro a tempo indeterminato, rendendo il costo del lavoro degli altri contratti più alto.
La Riforma Fornero ha infatti previsto un contributo addizionale a carico delle aziende che assumono dipendenti con i contratti atipici, ossia diversi dal contratto a tempo indeterminato.
In particolare, la legge prevede che ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato si applica un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4 per cento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
Ciò significa, tornando all’esempio del dipendente che ha una retribuzione complessiva lorda di euro 25.000, che i contributi Inps, se è assunto a tempo indeterminato, si calcolano su euro 25.000 mentre se è assunto con contratti atipici (contratto a tempo determinato, contratto di lavoro intermittente, contratto di somministrazione di lavoro) la base imponibile di euro 25.000 su cui si calcolano i contributi è aumentata dell’1,4% e dunque anziché euro 25.000 sarà pari ad euro 25.350.
Può sembrare un incremento non così incisivo ma se si pensa ad aziende con molti lavoratori a termine il costo complessivo della misura è rilevante.
Inoltre, recentemente, il Decreto Dignità [2] ha previsto che il contributo addizionale dell’1,45 della base imponibile ai fini previdenziali è ulteriormente aumentato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione.
Ciò significa che se l’azienda rinnova il contratto a termine ad un dipendente, il contributo addizionale dello 1,4 % segue la seguente evoluzione:
- primo contratto: 1,4%;
- primo rinnovo: 1,9%;
- secondo rinnovo: 2,4%;
- terzo rinnovo: 2,9%;
- quarto rinnovo: 3,45; e così via
La legge non prevede nemmeno un limite al crescere del contributo e dunque in caso di numerosi rinnovi l’incremento può diventare veramente importante.
Il contributo addizionale non si applica:
- ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
- ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali previste dalla legge (si applica, invece, ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali individuate dai contratti collettivi di lavoro);
- agli apprendisti;
- ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Come abbiamo detto, il fine del contributo addizionale è rendere il lavoro precario più costoso e indurre le aziende ad assumere i dipendenti a tempo indeterminato.
Per questo, la stessa legge prevede che il contributo addizionale è restituito al datore di lavoro in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato.
In questo ultimo caso la restituzione del contributo addizionale non avviene subito dopo la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato, ma solo dopo il superamento da parte del dipendente dell’eventuale periodo di prova previsto nel contratto. Ciò in quanto la legge vuole assicurarsi che il rapporto sia davvero stabile, cosa che non è durante il periodo di prova.