
Sono oltre 1,5 milioni i lavoratori che svolgono la libera professione nel nostro Paese e che risultano iscritti, per le loro prestazioni previdenziali, ad una Cassa professionale sostitutiva, a tutti gli effeti, dell’INPS. Si tratta di gestioni pensionistiche privatizzate, autonome, ciascuna dotata di un proprio regolamento e statuto interno con normative spesso differenti tra loro sia in termini di prestazioni che di requisiti e sistema di calcolo utilizzato.
E’ piuttosto raro che un operatore si avventuri a parlare di previdenza con un libero professionista, solitamente questo avviene più spesso con lavoratori dipendenti, piuttosto che autonomi e/o parasubordinati, tutte categorie previdenzialmente assicurate con l’INPS.
Eppure, soprattutto alla luce dell’ultima riforma Fornero, si tratta di lavoratori potenzialmente (ma soprattutto commercialmente) molto interessanti da un punto di vista di “consulenza previdenziale”, spesso molto di più di quanto si possa pensare.
Un cambiamento radicale
Negli ultimi 7 anni la crisi ha colpito anche questa categoria di lavoratori, con una riduzione dei redditi a due cifre: dal 2008 la perdita è stata di circa 15 punti percentuali e ancora peggio per i giovani under 40 e per le donne che vedono i loro guadagni subire una flessione di oltre il 20%. E il futuro non promette granché di buono, il numero dei laureati è in continuo aumento e questo si tradurrà in una scomparsa dei c.d. periodi di “facile guadagno” anche per una concorrenza sempre più spietata. Allora, o si ha la fortuna di nascere “figli d’arte” o iniziare a produrre il reddito desiderato diventerà sempre più difficile.
Anche sul fronte delle pensioni l’orizzonte non promette nulla di buono. Qualche Cassa professionale aveva già iniziato una decina d’anni fa’ a intervenire sul proprio regolamento interno, apportando modifiche in termini di requisiti e sistema di calcolo. La recente riforma Fornero ha fatto il resto con la richiesta (del tutto senza senso) di dimostrare un equilibrio finanziario tra entrate e uscite nei i prossimi 50 anni. Questo ha provocato una revisione dei regolamenti di tutte le Casse, con interventi votati al risparmio che si sono tradotti, per la maggior parte, nell’introduzione del sistema contributivo in pro-quota.
Qualche riflessione
Il sistema di calcolo contributivo è basato fondamentalmente su quanto accumulato in termini di contribuzione durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, il c.d. “montante contributivo” a cui, al raggiungimento dei requisiti, viene applicato un “coefficiente di trasformazione” in funzione dell’età anagrafica. E da cosa dipende l’importo dei contributi da versare? Sostanzialmente da due fattori:
1. il reddito dichiarato;
2. l’aliquota contributiva.
Per quanto riguarda il primo punto proviamo a vedere il reddito medio reale annuo, dichiarato nel 2014, di alcune categorie professionali: al primo posto troviamo i Notai con circa 85.000,00 euro (in contrazione del 9%), a seguire i medici (liberi professionisti) con circa 55.000,00 euro (sostanzialmente stabile), i commercialisti con 50.000,00 euro (sostanzialmente stabile), i ragionieri con 48.000,00 (in flessione del 10%), gli avvocati con 37.000,00 euro (in flessione del 20%). Se guardiamo poi il reddito medio di tutti i liberi professionisti vediamo che supera a mala pena i 20.000,00 euro reali annui.
Sul secondo punto, l’aliquota soggettiva (quella versata per la pensione) varia da un minimo del 10% (Psicologi, Attuari, Chimici, Dottori Agronomi e forestali), per arrivare al 12% (Commercialisti, Consulenti del lavoro), sino ad un massimo del 14,50% (Ingegneri e Architetti).
E’ del tutto evidente che con redditi medi di quest’importi e aliquote così basse, il montante contributivo accumulato non potrà di certo garantire una pensione decorosa.
Se pensiamo che un lavoratore dipendente ha un’aliquota contributiva del 33%, un autonomo del 24% ed un parasubordinato del 33% non è poi così difficile comprendere chi ha più necessità di consulenza previdenziale.