La pensione eterna

Al 1° gennaio 2018 l’INPS ha pagato ben 758.372 pensioni – comprese quelle ex INPDAP relative ai dipendenti pubblici – liquidate da oltre 37 anni, vale a dire erogate a donne e uomini andati in pensione nel 1980, o anche prima. Nel dettaglio, si tratta di 683.392 pensioni di lavoratori dipendenti e autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 546.726 erogate a donne e 136.666 a uomini; per i dipendenti pubblici sono invece 74.980 le prestazioni, di cui 49.510 liquidate a pensionate di sesso femminile e 25.470 a pensionati uomini.

Tenendo presente che sotto l’aspetto attuariale e demografico le pensioni corrette dovrebbero durare in media 25 anni, le cifre di cui sopra sono destinate a far discutere.

Se con la riforma Fornero si è arrivati a una eccessiva rigidità è altrettanto vero che nel periodo 1965 – 1990 si è smarrita la correlazione tra contributi versati e importo delle pensioni adottando requisiti di enorme favore.

Il risultato? Anomalie che tuttora appesantiscono il bilancio del sistema previdenziale.

 

Dai dati dell’ultimo Osservatorio della spesa pubblica del Centro Studi e Ricerche di Itinerari previdenziali la durata media delle pensioni erogate dal 1980 o prima è di circa 38 anni per i dipendenti del settore privato e 41 anni per i dipendenti pubblici. Ben oltre i 25 anni che rappresentano un punto di equilibrio tra periodo di lavoro e pensionamento. A oggi sono addirittura in pagamento ben 3.806.297 pensioni che hanno superato la durata di 25 anni, pari al 24% dei pensionati complessivi (circa 16 milioni nel 2017).

 

Le donne rappresentano la categoria maggiormente favorita con l’80% delle pensioni in pagamento da 37 anni e più e il 67% di quelle oltre i 25 anni. Da rimarcare inoltre che, a gennaio 2018, nel settore privato risultano ancora in essere 250.000 pensioni dovute a prepensionamenti avvenuti anche con 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti allora vigenti: numeri che evidenziano l’uso particolarmente intensivo del prepensionamento fatto sino al 2002 che ha contribuito non di poco ad appesantire il bilancio del sistema.

 

Un’attenzione particolare merita la pubblica amministrazione che ha beneficiato di norme estremamente favorevoli per andare in pensione anticipatamente negli anni Settanta – Ottanta e fino ai primi del Novanta, quando le riforme Amato (1992) e Dini (1995) misero la parola fine al fenomeno delle baby pensioni maturate a fronte di pochi anni di contribuzione (14 anni sei mesi e un giorno per le donne sposate o con figli, ad esempio).

In questo caso le pensioni pagate da oltre 37 anni sono più di 75.000.

 

Non è raro sentire che ci si lamenti perché l’età per andare in pensione sono più elevate rispetto al passato e che aumentino ogni due anni. Bisogna però sapere anche che i motivi sono essenzialmente due:

 

  • un costante aumento dell’aspettativa di vita media
  • la necessità di mantenere il sistema in equilibrio

 

Senza legare l’età pensionabile alla speranza di vita, i rischi sono proprio quelli che emergono dall’analisi fatta dall’Osservatorio di Itinerari Previdenziali sulle prestazioni erogate molti anni fa e ancora oggi in pagamento: baby pensioni come quelle del settore pubblico, lavoratori mandati in pensione in età giovanile, casi limite di prepensionamenti, pensioni di anzianità prima dei 50 anni.

 

Casi “estremi” verrebbe forse da dire, ma proprio per questo sintomatici di un Paese che, quando si parla di misure previdenziali, preferisce troppo spesso spostarsi sulle estreme anziché mantenersi in un “centro equilibrato” e tutto questo ne è il risultato. 

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