Un po’ come per il settore automobilistico anche nella previdenza complementare la rottamazione conviene. In particolare per quanto riguarda i vecchi PIP (Piani pensionistici individuali che non si sono adeguati al decreto 252/2005) trasferire la posizione a un nuovo PIP consente di ottenere prestazioni migliori.
Questo non solo per la maggiore efficienza (costi meno elevati) ma ci sono anche altri vantaggi. I nuovi PIP sono più sicuri e trasparenti (ci sono nuove regole in vigore dal 2007 che tutelano maggiormente i pensionati futuri): le «gestioni separate» a cui si agganciano i cosiddetti nuovi Pip godono, per esempio, di un’autonomia e separatezza patrimoniale (ai sensi dell’articolo 2117 codice civile) che risulta un ottimo «airbag» di fronte a eventuali «incidenti» di percorso: in caso di crack della compagnia assicurativa gli iscritti a forme di previdenza complementare “adeguate” alla riforma del 2005 sono più tutelati non essendo tale patrimonio distraibile al fine previdenziale. Da non scartare poi il fatto che ai Pip nuovi si può conferire anche il Tfr consentendo cos’ di accumulare un montante più capiente per la futura pensione. Più flessibilità è prevista anche in uscita: in determinati casi si può riscattare la posizione e, dopo otto anni di permanenza, si può chiedere anche un’anticipazione fino al 30% della posizione, senza dare particolari giustificazioni. Possibilità preclusa ai vecchi PIP che sono ancora legati al decreto 124/93.
Da non sottovalutare, infine, l’aspetto fiscale cui sono soggette le prestazioni (oggi con un’imposta sostitutiva del 23% e/o variabile tra un 15% e un 9%): in forma di capitale a tassazione separata e in forma di rendita ad aliquota marginale IRPEF e i premi conferiti, deducibili entro il limite del 12% del reddito.
Eppure gli italiani risultano essere molto pigri a muoversi e a rinnovare le proprie scelte nella previdenza. I dati parlano chiaro: nonostante le forme di prima generazione (ante 2007) siano molto meno convenienti con costi fuori controllo (anche pari al 7%-8% sul premio versato), a circa undici anni dall’entrata in vigore del decreto 252/2005 solo il 40% degli 880mila aderenti ai Pip “vecchi” ha deciso di cambiare. Oggi infatti gli italiani che hanno nel cassetto ancora un «vecchio» contratto sono oltre 500mila.
Questi dinosauri previdenziali, pur non potendo essere più venduti, vengono ancora alimentati tanto che, nonostante il calo degli iscritti, le risorse destinate alle prestazioni sono salite da 4,8 miliardi di fine 2006 agli attuali 6,5 miliardi.
Vista la convenienza dei Pip e dei fondi pensione nuovi come mai solo il 40% ha cambiato? Qui le colpe sono di più soggetti. Non solo delle compagnie assicurative che hanno tutto l’interesse a guadagnare sui vecchi modelli dotati di maggiori margini. Ma anche del legislatore che avrebbe dovuto stabilire una sorta di rottamazione dei vecchi strumenti per tutelare i risparmiatori.
Non bisogna dimenticare infatti che, come ricorda la stessa Covip, su un periodo di partecipazione di 35 anni, e a parità di rendimenti della forma prescelta, l’1% in più di costo annuo trattenuto corrisponde a un abbattimento della prestazione finale di quasi il 20%, se la maggiorazione sale al 2,5% annuo la prestazione si riduce di un terzo.