La riforma Fornero del 2011, in un periodo di grande crisi finanziaria, ha di colpo innalzato il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia che, per tutti i lavoratori (dipendenti e autonomi) si collocherà dal 1° gennaio 2018 a 66 anni e 7 mesi di età. Il requisito anagrafico, peraltro, è oggetto dell’adeguamento alla speranza di vita ISTAT che, dal 2019 sarà su base biennale.
Si deve aggiungere, inoltre, che se è vero che la riforma ha abolito le “finestre d’uscita” (periodo che intercorreva fra la maturazione del diritto e l’erogazione della prima rata di pensione), non si deve dimenticare che (in alcuni casi) già da adesso al pensionamento si può arrivare solo a 70 anni e 7 mesi, è il caso, ad esempio, di coloro che si trovano in un regime di calcolo esclusivamente contributivo (lavoratori privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995) per i quali il requisito anagrafico previsto dalla riforma è valido a condizione che l’importo della pensione sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale. In caso contrario potranno accedere al pensionamento solo a 70 e 7 mesi di età, con almeno 5 anni di contribuzione.
Un privilegio per pochi rimane poi la pensione anticipata che si raggiunge alla ragguardevole soglia di 42 anni e 10 mesi di contribuzione per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. (triennio 2016 – 2018).
Anche questo requisito contributivo è soggetto all’adeguamento della speranza di vita ISTAT e sarà rivisto ogni due anni a partire dal 2019.
Per coloro che sono privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 (regime di calcolo esclusivamente contributivo) la pensione anticipata può essere richiesta, oltre al normale requisito contributivo descritto, anche al compimento del 63° anno di età, con almeno 20 anni di contribuzione (no contributi figurativi) a condizione che l’importo dell’assegno risulti almeno pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale.
Chi richiede la pensione anticipata prima del compimento del 62° anno di età subisce una penalizzazione sulla quota di pensione calcolata con il sistema retributivo in funzione, appunto, dell’età anagrafica. La legge n. 190 del 2014 è intervenuta su questa penalizzazione annullandone gli effetti sino al 31 dicembre 2017.
In buona sostanza la riforma Fornero prevede soglie quanto mai elevate sia per l’età anagrafica (pensione di vecchiaia) sia per l’anzianità contributiva (pensione anticipata) che certamente rispecchiano il fatto che la vita media degli italiani è molto cresciuta rispetti agli altri paesi europei, ma che principalmente sono conseguenza della necessità di dover limitare in un sol colpo la spesa pubblica in un momento in cui lo spread fra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi aveva toccato il massimo rischiando di far esplodere il debito pubblico a causa degli interessi troppo elevati.
In altri paesi, a limiti così elevati corrispondono specifiche politiche sociali, ad esempio, incrementare i permessi di salute, ridurre l’orario di lavoro in fasi avanzate di età, regimi specifici per le attività più usuranti. In alternativa si può pensare a una forma di “penalizzazione”, ovvero ad una riduzione dell’assegno per coloro che decidono di lasciare anzitempo il lavoro, che deve però interessare solo coloro che abbiano raggiunto un livello medio/alto di pensione, di modo che la riduzione non venga a pesare eccessivamente sull’assegno mensile corrisposto.
Anche le imprese premono per la ricerca di una soluzione nei casi in cui non siano interessate a mantenere in vita il rapporto di lavoro con personale poco qualificato ed avanti con l’età. Al riguardo la riforma Fornero conteneva una misura (art. 24, comma 4, decreto legge 201) che assicurava la reintegrazione ai lavoratori licenziati in età avanzata, ma la Corte di Cassazione nel settembre 2015 si è espressa in maniera fortemente contraria, anche a ragione del fatto che appare paradossale tutelare lavoratori con elevata anzianità contributiva più dei giovani neoassunti, orami privati dal Jobs Act delle garanzie in ordine alla stabilità del posto di lavoro.
La situazione, dunque, non è semplice e questo spiega come mai da tempo si cerchino soluzioni adeguate, al momento possiamo fare solo alcune considerazioni.
L’indennità di disoccupazione, conosciuta come NASPI, paga attualmente in via transitoria sino a 24 mesi con un importo pari all’80% dell’ultima retribuzione e sta svolgendo una funzione di accompagnamento alla pensione per i lavoratori che perdono il posto di lavoro.
L’età di accesso alla pensione sociale è rimasta fissa a 65 anni e 7 mesi, consentendo a coloro che si trovano in situazione di bisogno di poterla richiedere in attesa di maturare i diritti pensionistici.
In passato, alle esigenze di reddito a seguito di un licenziamento, si faceva fronte con la liquidazione (ora TFR), ma questa disponibilità è stata ritenuta inutile, in modo che, al di là della sua destinazione a forme di previdenza complementare, molti lavoratori l’hanno utilizzata come strumento di garanzia per avere accesso a forme di finanziamento, così di fatto privandosene spesso per intero.
Certamente coloro che hanno aderito a forme di previdenza complementare possono richiedere un’anticipazione, ma un’operazione di questo genere altro non è che la restituzione di un capitale investito e quindi viene a ridurre (se non ad annullare del tutto) l’integrazione pensionistica che si era volontariamente venuta a costruire.
Infine, anche l’ipotesi di un prestito bancario garantito dalla futura pensione (APE) non sembra una via praticabile poiché l’anticipo erogato dalle banche dovrà popi essere scontato sui ratei futuri della pensione riducendone per anni (20) l’importo.