Quali sono le prospettive del nostro sistema pensionistico? E’ possibile garantire ai giovani lavoratori pensioni sostenibili? Le forme di pensionamento anticipato, quota 100, opzione donna rappresentano delle problematiche o sono delle opportunità? Sono queste alcune delle domande più frequenti nel costante dibattito sulle pensioni.
Sebbene l’età “legale” per accedere alla pensione di vecchiaia sia pari a 67 anni, in Italia l’età effettiva di uscita dal mondo del lavoro si ferma a 63,3 anni per gli uomini e a 61,5 anni per le donne. Secondo l’OCSE un’età troppo bassa per garantire una sostenibilità del nostro sistema pensionistico.
La logica suggerirebbe di aumentare l’età effettiva di pensionamento, limitando il più possibile le forme di pensionamento anticipato e applicando l’adeguamento alla speranza di vita media non solo all’età anagrafica per la pensione di vecchiaia ma anche all’anzianità contributiva per la pensione anticipata. L’adeguamento alla speranza di vita media è stato introdotto dalla riforma Monti- Fornero nel 2011 e prevede una periodicità biennale ma, al contrario dell’età anagrafica per la pensione di vecchiaia, il meccanismo di adeguamento per l’anzianità contributiva della pensione anticipata è stato bloccato fino al 2026 a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.
Nel nostro Paese le diverse opzioni di pensionamento anticipato introdotte in questi ultimi anni hanno portato ad avere un vero e proprio “caos pensionistico” con regole diverse per ogni categoria.
La tanto discussa Quota 100 che voleva essere una risposta all’eccessiva rigidità introdotta dalla riforma Fornero si è rivelata più una mossa politica che uno strumento di flessibilità. Si pensi, ad esempio, ad un lavoratore di 60 anni di età con ben 40 di attività lavorativa, sebbene con due anni di contribuzione oltre i 38 richiesti in quota 100 non può andare in pensione perché non ha raggiunto i 62 anni di età. In ogni caso a oggi la maggior parte dei lavoratori che si trovano in un sistema di calcolo misto e che poteva approfittare di quota 100 senza rimetterci molto lo ha già fatto. Dal prossimo anno coloro che potranno accedere avranno almeno il 60% dell’assegno calcolato in regime contributivo con una riduzione dell’importo della pensione vicino a un 10%.
Nessuno, invece, si è mai preoccupato della rigidità nei confronti dei giovani lavoratori, i così detti “contributivi puri” per i quali l’età di pensionamento per la vecchiaia (67 anni) è valida in presenza di un assegno almeno pari a 1,5 volte importo del trattamento minimo (circa 800 euro mensili), una soglia che, considerate le attuali retribuzioni, rischia seriamente di escludere una gran parte di questi lavoratori, ai quali resta come unica alternativa il pensionamento a 71 anni.
Una giusta, semplice ed equa soluzione era stata introdotta dalla riforma Dini nel 1995 che prevedeva una “flessibilità in uscita” dai 57 ai 65 anni con libera scelta da parte del lavoratore in funzione della singola situazione familiare-finanziaria e una riduzione dell’importo in relazione all’età di pensionamento.
Questa flessibilità in uscita era stata (inspiegabilmente) abolita dalla riforma Maroni del 2004.
Lasciare la scelta del pensionamento al lavoratore è assolutamente necessaria a maggior ragione considerando che dal prossimo anno il 73% dei lavoratori, il 95% dal 2022, avrà una gran parte della pensione calcolata in regime contributivo e, di conseguenza, non costerà un euro di più alla collettività se non il costo dell’anticipo che si ammortizzerà nei successivi 10 anni. Del resto, non caso, tutti i sistemi pensionistici che adottano il sistema di calcolo contributivo hanno la flessibilità in uscita. Ma, ancora più importante, è mettere fine al ciclo delle riforme dando certezze ai cittadini con regole semplici e valide per tutti.